OSVALDO MOI RIPERCORRE LA STRADA CHE L’HA PORTATO ALLA SCULTURA FRA INTERVENTI PUBBLICI E MOSTRE IN GIRO PER IL MONDO

Scultore da sempre, Osvaldo Moi (Silius, 1961) sin dalla sua infanzia ha manifestato una propensione alla performing art e alla scultura. Affida al fluire delle forme e alla forza espressiva della materia il senso della sua ricerca. È autore del gruppo in bronzo per i Caduti di Nassirya, collocato in piazza d’Armi a Torino; altre due copie sono a Novara e a Pianezza (TO). È stato invitato da Vittorio Sgarbi alla 54esima Biennale di Venezia, interpretando il ritratto del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e di un suo busto. Espone a Parigi, Saint-Paul-de-Vence, Milano, Torino. Vive e lavora tra Torino e Limone Piemonte, dove ha i suoi studi.


Quando hai iniziato la tua attività artistica? E qual è la tua definizione di scultura e performing art?
Da bambino avevo scoperto di avere quella particolare propensione che ho inteso come dono, la possibilità di creare, di estrarre dal legno, dalla pietra, da vari materiali quella forma plastica che da tempo immaginavo e vedevo nella mia mente come in un film o un’immagine ancestrale. Ho sempre avuto quell’intuito, quella spinta interiore, come un clic di una macchina fotografica nel momento in cui potevo vedere nei tronchi o nei materiali la struttura che ne sarebbe scaturita; è come se una forza interna mi spingesse a cercare e dare la giusta forma e di muoverla nello spazio ‒ come ad esempio le mie escargots che viaggiano su tracciati immaginari.

Due di queste le ho portate e poi fotografate sul ballatoio all’interno del Guggenheim e dentro la sala congressi principale delle Nazioni Unite a New York. Una performing art forse surreale ma al tempo stesso azione fisica oggettiva. Le faccio girare ovunque, sono ironiche, scherzose, allegre. Sono lo sviluppo di un gioco d’ombre che facevo da bambino, adoravo andare a raccogliere le lumache nei prati, era l’espressione del mio senso di libertà


Come avviene il tuo processo artistico?


Non è mia abitudine scarabocchiare, disegnare bozzetti, le immagini di quelle sculture sono dentro di me, vive, nella materia e nel colore, si muovono, io giro intorno con lo sguardo e loro mi chiedono di essere realizzate. Non che non sia in grado di disegnare
(anche perché ho imparato prima a disegnare che camminare), ma mi sembra troppo semplice risolvere le immagini che mi affollano la mente con il disegno. Io voglio creare tridimensionalità, dar movimento nello spazio alle opere, voglio dar loro vita; nel disegno non trovo quell’intensità, quell’anima, evidentemente corrisponde al mio bisogno di interagire con lo spazio che mi circonda e con la poesia dei materiali.


Che ricordi hai delle tue prime creazioni?

È iniziato tutto in modo naturale, in prima elementare, in fondo all’aula, lontano dagli occhi della maestra, smontavo le lamette dei primi temperini e intagliavo le matite creando piccole sculture. Negli anni il mio lavoro si è focalizzato sempre di più sulla scultura e l’interazione con materiali anche poveri come “objet trouvé” trasformati dalla mia visione. La tua prima esposizione.
Ho esposto per la prima volta nel 2003 in TV per Striscia la Notizia. Ho creato un Tapiro della pace. Ho realizzato un monumento per i caduti di Nassiriya nel 2004 a Novara e uno a Torino in piazza d’Armi nel 2006. Tutto questo prima della mia prima mostra a Parigi nel 2007, in una galleria storica a 50 metri dal Centro Pompidou, il Beaubourg, e alla Galerie Art Present. In quel periodo ero in Libano come soldato ONU [è stato per anni sottufficiale e pilota di elicotteri dell’Esercito Italiano, N.d.R.] e da lì ho fornito e istruito una tipografia di Beirut per la realizzazione del catalogo, gli inviti per la mia prima mostra. Mi sono fatto presentare alla città di Parigi con una breve critica dell’allora sindaco di Roma on. Valter Veltroni e dall’attore Massimo Ghini.


Come definiresti il tuo stile?
Le mie sculture tendono in genere al Surrealismo con incursioni nella Pop Art. Definirei il mio approccio intellettuale, ma non ideologico.


Quali tecniche utilizzi?
Adoro scolpire legni nobili come il noce, il profumato cirmolo (pino cembro, il re dei legni), il morbido tiglio, ma scolpisco anche legni duri come il rovere, il profumatissimo ginepro o i durissimi bosso e l’ebano. Ho in mente il lavoro e lo estraggo dalla forma naturale prima con la motosega, poi, prima di procedere con gli scalpelli, tolgo il superfluo con degli smerigli con delle lame in acciaio. Infine carte vetrate sino a ottenere la finitura che più mi aggrada e che mi porta al risultato desiderato. Ultimamente sto lavorando sul riccio di mare, creatura fantastica che ha in sé la parte vitale ma estremamente difesa dagli aculei. Lo sto interpretando in vari materiali e dando consistenza ad anime differenti, come con rami tagliati, raccolti nei boschi tra la neve a gennaio, lasciati maturare e poi appuntiti e assemblati con incastri o con stoffe di cotone, seta e carta induriti e manipolati con le resine bicomponenti che solidificano in pochi minuti.


C’è un’opera che hai realizzato a cui sei particolarmente legato?
Sono legatissimo all’ultima, che considero una delle mie migliori. Hanno però tutte dei significati particolari per me, ricordi a cui sono legato e a loro ho trasferito amore e passione. Mio padre, quando avevo quattro anni, vedendomi agitato e attivo, diceva agli amici che mille cose pensavo e cento ne facevo, mentre mia madre, quando usciva di casa, lasciava me con mio fratello e le sorelle maggiori a controllarmi e con me si raccomandava che non facessi il monello perché il Gesù grande e quello piccolo (due crocifissi sopra le porte di casa) mi vedevano e mi avrebbero punito. Quando usciva spostavo il tavolo, mettevo una sedia sopra, mi arrampicavo, toglievo i crocifissi, li nascondevo così che non potessero vedermi e facevo le mia marachelle. Ho realizzato una scatola in plexiglass con i lati dell’età di Cristo, 33 x 33 x 33 cm dentro cento crocifissi bendati; al posto di INRI c’è Moi. Dissacranti? No, li ho bendati anche perché nel mio ricordo infantile mascherarli voleva dire che non avrebbero visto quello che combinavo e non ci sarebbero state punizioni. Questo corrisponde ancora oggi alla mia concezione di Gesù misericordioso.

E per quanto riguarda le altre opere?
Il bidone dell’immondizia, La grande storia, è l’inizio e la conclusione di un periodo
(avvenuto prima della realizzazione del libro edito da Skira nel 2017 curato da Martina Corgnati), generato dal ricordo che dagli 11 anni ai 17 raccoglievo l’immondizia che precipitava dalle tramogge di due scale condominiali. Avevo a disposizione 14 bidoni che riempivo a giorni alterni e portavo all’esterno affinché la nettezza urbana li portasse via e li svuotasse. Così, per chiudere un ciclo che ha coinvolto anche la mia vita professionale, all’interno di quel bidone ho messo gli abbigliamenti di servizio, il calcio di un fucile e una borraccia a indicare la fine della mia vita militare e in qualche modo un rifiuto, che mi ha sempre accompagnato, verso la violenza della guerra. Infine una serie di trofei che negli anni ho realizzato per il Principe Alberto di Monaco e le sue competizioni sportive con finalità benefiche. Amo molto le escargot, ho anche realizzato un video in cui ho usato la luce del sole per dare un senso metafisico al naturale, con una mano chiusa ho proiettato il guscio e con l’altra il corpo della lumaca in movimento con le corna tese a caccia di odori. Raccontaci della tua mostra appena inaugurata, che sarà visibile al pubblico fino al 20 marzo 2020.
Ad aprile sono stato a Büdingen presso la Galleria Lo Studio per valutare gli spazi, per selezionare e coordinare le opere da esporre con il curatore, lo storico dell’arte Christian Kaufman, e la gallerista Sabine Uhdris. Sulla base di una serie di lavori pubblicati sul libro edito Skira e curato da Martina Corgnati, abbiamo scelto una serie di sculture che hanno segnato il mio percorso artistico negli ultimi anni. Lavori che per essere realizzati hanno richiesto molteplici test, ricerche dei giusti materiali che agevolassero l’assemblaggio e il desiderato risultato estetico ed espressivo. Il vernissage del 16 novembre è stato un inizio, ma anche la conclusione, di un anno di intenso impegno alla ricerca dell’opera ideale, anche se in realtà il mio lavoro si evolve e sento già che altro prende forma nella mia fantasia.


Come si alimenta la creatività? Come avvengono le scelte che compi quando ti accingi a realizzare un’opera o una installazione?
In ogni momento nel mio immaginario si creano esseri amorfi, surreali o del tutto reali. Ho sempre immaginato esseri, forme, creature con un occhio al Surrealismo e uno al grande Bosch in un melting pot creativo, ho progettato e realizzato attrezzi. A volte mi sveglio in piena notte con in mente il perfetto percorso di realizzazione di un’opera, oppure, mentre cammino o guido l’automobile, immagino i prossimi lavori, studio le tecniche di realizzazione, immagino i materiali, se non ci sono li adeguo, li “educo” e li gestisco idealmente, li vedo nel loro sviluppo, vedo crescere e formarsi il pezzo che visualizzo, vedo le sculture vivere, e nel momento in cui le realizzo ripercorro quei passi immaginati.

Qual è il tuo prossimo obiettivo?
Il primo prossimo obiettivo è spostare il mio atelier torinese in uno spazio più grande e funzionale, lo studio laboratorio a Limone Piemonte risponde bene alle mie esigenze. Prossimamente voglio dedicarmi a pezzi di grandi dimensioni come il riccio, anche più grandi, e il laboratorio di Limone è l’ideale. A conclusione di questa mostra ho intenzione di andare a Parigi, dopo dieci anni vorrei fare una personale a fine 2020, ho alcuni lavori esposti presso la galleria Nichido, la più vecchia di Tokyo, e poi sto cercando una galleria a New York e a Londra. Altre creature, altre forme e materiali affollano la mia mente, devono trovare la giusta via d’uscita.

Alessia Tommasini
Giornalista ART TRIBUNE
19 novembre 2019

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