Non sappiamo se dopo questi anni di guerre fratricide, di attentanti e di libertà violate qualcosa cambierà: viviamo in una società che spesso non ha il tempo per verificare menzogne e verità, storie reali e fantasie più o meno credibili e a volte ci si ritrova a fare un miscuglio tra giusto e ingiusto, tra dimostrato e indimostrabile. Alcune persone, con particolari capacità comunicative, riescono a trasformare questo “clima” in moda, in tendenza, e, talora, anche in arte visiva.
E’ il caso di Osvaldo Moi che quando non trova nella cassetta degli attrezzi gli strumenti giusti per affrontare la realtà che lo circonda, si muove su un altro terreno, quello della scultura con la quale testimonia, descrive, esprime e spesso, perché no?, si diverte a plasmare uno spazio che sotto le sue mani prende vita.
Moi, infatti, intende la scultura sia come arredo monumentale, che si confronta con l’ambiente urbano – come ad esempio con il Monumento ai caduti di Nassirya, realizzata in tre esemplari, collocati a Novara, in zona Allea, a Torino in Piazza d’Armi e Pianezza nel Parco della Pace -, sia come ornamento puro, come le serie dei Petits nez, o delle Escargot. In entrambi i casi, comunque, si tratta di momenti di ricerca, dove la disposizione ritmica dei volumi non dà mai luogo ad una composizione complessa: si viene coinvolti nel continuo alternarsi di pieni e di vuoti, di concretezza e di astrattismo, di realismo e di immaginazione, in un movimento che risponde egregiamente al bisogno di scoperta e di illusione insito in ciascuno di noi.
E’ una passione, quella di Moi per la scultura, che affonda le sue radici fin nell’adolescenza, passando attraverso una vita ricca di esperienze nei campi più disparati, da ognuno dei quali ha tratto un insegnamento valido da trasporre nella lavorazione della materia. E forse è per questo che le sue opere conquistano l’occhio e l’emotività del fruitore, che viene stimolato a pensieri e a osservazioni. Forme, colori, sinuosità, allusioni, come piacevoli e chissà quanto innocenti giochi, riempiono spesso di allegra vitalità lo spazio circostante.
Sulle superfici plastiche compaiono i segni evidenti dell’amore per la manipolazione della materia, che prevede l’autonomia della forma, plasmata sui rigori della linearità, da cui viene escluso quasi totalmente il peso e la gravità della massa, per lasciare il campo a strutture in cui anche le spigolosità generano vigore espressivo.
La realizzazione dell’opera non nasce dalla contemplazione del dato oggettivo, ma piuttosto dal trasferimento in esso di una carica emozionale che scaturisce da un profondo bisogno di fare. La scultura può essere, infatti, un modo di guardarsi dentro o di buttarsi fuori, di speculare sull’essenza dello spazio e del tempo o di entrarci dentro. Moi sceglie la seconda via, rivelando, svelando e utilizzando la forma per permettere alla luce di trattenere l’attimo fuggente di un particolare e donare alla materia una forma che si libera nell’ambiente animandolo.
Marilina Di Cataldo
Critico d’arte
febbraio 2010